Abbarbicato a suggestive altitudini, Castelsaraceno sembra affiorare dalle pareti montuose che disegnano la sua scenografia, pennellate di verde che conservano le tracce della storia e le scarpinate dei suoi personaggi. L’origine del borgo potrebbe collocarsi tra il IX e il X secolo, quando l’esercito mercenario saraceno avrebbe eretto una costruzione strategico-difensiva di vedetta sulla valle del Racanello, un castrum, abbrancandosi in quello che sarebbe diventato l’attuale agglomerato urbano, costeggiato nel Largo Sant’Angelo da una superstite cinta muraria e dalla rudere di una torre.
L’atavico sangue saraceno scorre nelle arterie del centro storico castellano, ricamato da un’architettura angusta e ricucito da portici e archi tutt’ora visibili, ma anche nell’indole ribelle della vecchia signoria sbandierata dalle squadre di briganti nel dì del plebiscito che avrebbe sancito l’unità d’Italia. L’albero genealogico di questa perla naturalistica tuttavia non è perfettamente tracciabile, in quanto al borgo come crocevia, come luogo di passaggio con finalità prettamente commerciali, si contrappone un’eziologia che risuona dalle pendici del monte Raparo e canta le gesta degli abitanti del villaggio Planula -prima romano e poi bizantino- contro le escursioni degli infedeli.
Le autorevoli ricerche delle professoresse Armenti e Iannella, indefesse studiose delle vicende di Castelsaraceno, riportano la presenza di un percorso antoniniano del III secolo, la via Erculea, che da Grumento, dalla Val d’Agri risaliva proprio in direzione del territorio di Castelsaraceno, da cui passava addirittura dall’età del bronzo una via della transumanza che collegava l’Agri e il Sinni, il Mar Tirreno e il Mar Ionio, battendo il sentiero di un’antichissima via commerciale. Tratturi della transumanza che coincidevano con queste antichissime vie istmiche della Magna Grecia; i greci, risaliti fino alla media Valle dell’Agri, avrebbero preferito le strade interne per sfuggire alla pirateria e per creare un legame infrastrutturale tra Mar Tirreno e Mar Ionio. Con la successiva dominazione romana, le vie istmiche sarebbero state abbandonate. Che il territorio di Castelsaraceno sarebbe stato abitato fin dalla preistorica è un’ipotesi attestata dal rilevamento di ceramiche ad impasto rilevate da Vittorio De Cicco nelle grotte del monte Raparo, all’inizio del secolo.
Questa sentieristica sembra brulicare anche nella gastronomia castellana, una traccia importante che ci parla dei prodotti culinari ricavati dall’attività della pastorizia come tra i più preziosi della dieta locale. Una ricchezza gastronomica a cui i romani, sembra, non avrebbero saputo rinunciare, nonostante la tortuosa rete viaria che collegava la caput mundi al villaggio e alle mani esperte di prelibati insaccati. Un’ambiguità, un’incertezza di spiegazioni e argomentazioni che risuona negli anfratti della memoria storica, parlando il linguaggio della suggestione, del mistero, del fascino che nessuna scienza esatta potrà probabilmente mai slabbrare. È una visuale che si perde nelle cavità dei massicci montuosi del paese dei due Parchi, in cui lo sguardo curioso e attento potrà ripercorrere, scollinando, i percorsi scoscesi dei briganti e dei loro leggendari tesori o ripensare alla ritirata di un temerario comandante come Annibale, risucchiato da questa ospitale natura rigogliosa. La lacuna bibliografica sarebbe dovuta anche alla vendita da parte di un privato, un certo Don Ciccio, dell’antico convento dei Cappuccini, complesso edilizio di cui faceva parte anche l’attuale chiesa di San Rocco, prezioso luogo di ricerca e di accumulo del sapere sperperato nei secoli.
Si parla, nelle mai univoche ricerche storiche su Castelsaraceno, inoltre, di una successiva presenza longobarda e di una dominazione normanna, il cui apporto culturale si può congetturare individuabile nei riti arborei che ancora oggi definiscono una peculiare religiosità locale, armonizzata da gesti apotropaici, propiziatori dal XVII secolo consacrati a Sant’Antonio da Padova, patrono di Castelsaraceno. Furono proprio i Normanni a battezzare il bizantino “tema della Lucania” con “Basilicata”. L’espansione del borgo risalirebbe al 1542, allo stile rinascimentale e alla famiglia dei Sanseverino, che avrebbe commissionato la costruzione della chiesa Madre dedicata allo Spirito Santo e del palazzo baronale, la cui facciata domina lo spazio circolare della piazza Piano della Corte. L’imponente edificio religioso, impreziosito da opere d’arte che vanno dal polittico su tela di Ippolito Borghese alla statua settecentesca di Sant’Antonio, sembra ricucire la parte alta e quella bassa del paese, un panorama di indiscussa bellezza che culmina nella rocciosa parete del Monte Alpi, a cui si alligna il pino loricato. La preziosa e longeva specie vegetale, simbolo del Parco nazionale del Pollino, si può ammirare dal Belvedere, dosso panoramico accessibile dalla maestosa faggeta del bosco Favino. La natura è la vera risorsa di questo crogiulo di genti, protagonista del Festival dei due Parchi e della Festa della Montagna, organizzati rispettivamente nel mese di Agosto e nell’ultimo fine settimana di Ottobre.
Castelsaraceno è un florilegio di cultura, di storia e di arte sottintesi, custoditi gelosamente nei luoghi inaccessibili del suo ecosistema, negli spazi chiaroscurali dei suoi boschi e dei suoi vicoli, in cui l’ospite, immagine degli déi, è sacro e si invita a tavola per dirgli che è il benvenuto!